martedì 4 marzo 2014

Sfide impossibili: la disoccupazione

Gli economisti bocconiani con master a Chicago e i renzini dai sorrisi smaglianti ci assicurano che sburocratizzando, alleviando le imprese dalle tasse sul lavoro e organizzando corsi di formazione lo sviluppo dispiegherà le sue ali radiose nel cielo della Ripresa della Crescita.
Diamoci una calmata e ragioniamo.
Magari gli intoppi che impediscono l’uscita dalla crisi occupazionale fossero tutti qui.
Magari bastasse qualche pratica in meno e qualche corso in più per saldatori o tornitori.
Nel mercato globale sopravvive chi è competitivo.
Nella competizione ci sono vincenti e perdenti.
Per essere vincenti occorre aumentare la produttività. Si è più produttivi in tre modi: abbassando salari e stipendi; aumentando l’orario di lavoro a parità di salario o stipendio; producendo come o più di prima ma con minore personale dipendente, vale a dire puntando sullo sviluppo tecnologico a scapito dell’occupazione.
Semplice, chiaro, sotto gli occhi di tutti.
I bocconiani masterizzati a Chicago e i renzini non lo possono ammettere perché dovrebbero concludere che impoverimento e disoccupazione sono strutturali, connaturati al sistema e non congiunturali. Dovrebbero riconoscere che Marx, almeno in queste analisi del capitalismo, aveva ragione.
Nel periodo 1945-75, quello del capitalismo dal volto umano, fu possibile aumentare salari e stipendi, diminuire le ore di lavoro, ricollocare prima nell’industria la manodopera espulsa da un’agricoltura meccanizzata, poi nei servizi la manodopera espulsa dall’industria in seguito allo sviluppo tecnologico, grazie a condizioni oggi irripetibili: la ricostruzione dopo le distruzioni belliche, il basso costo delle materie prime, la grande disponibilità di capitali in un clima di fiducia e in mancanza di una sensibilità ambientalista. Anche il welfare si estese. Furono gli anni migliori per la classe lavoratrice di Occidente.
Quelle condizioni sono venute a mancare ed è venuta a mancare l’URSS.
Liberatosi dell’obbligo di vincere la sfida col comunismo novecentesco, il capitalismo ha potuto riprendere la sua logica ferrea, quella del mercato, della competizione che obbliga ad aumentare la produttività a spese dell’occupazione.
I lavoratori espulsi dal processo produttivo sempre più automatizzato non trovano più posto nei servizi perché il debito pubblico, divenuto ovunque colossale, obbliga a tagliare i servizi anziché incrementarli.
Questi sono i fatti, per la cui comprensione non necessitano lauree alla Bocconi né master a Chicago né un posto nella segreteria renziana, perché sono sotto gli occhi di tutti.
Allora ci vuole ben altro che la sburocratizzazione o i corsi di formazione.
Un orario di lavoro ridotto, un salario decente, un alto tasso di occupazione, possono essere consentiti solo da un sistema che si sottragga alla concorrenza internazionale e all’obbligo dell’aumento continuo della produttività del lavoro.
In altre parole, occorrerebbe una politica economica rigidamente protezionistica.
Il protezionismo praticato dall’Italia, a livello nazionale, ci condannerebbe alla fame. Il protezionismo è concepibile solo  a livello europeo: una vasta area di libero scambio ma chiusa verso l’esterno, con regole precise che fissino minimo di stipendio e orario di lavoro in tutta l’Unione.
Per giungere a tanto occorrerebbe una rivoluzione che abbattesse l’attuale UE e costruisse qualcosa di radicalmente diverso. Nulla di tutto ciò si intravede all’orizzonte. Bisogna mettersi in testa che la stagione delle libertà, della forza del sindacato, degli stipendi in crescita e dell’occupazione stabile, è stata qualcosa di eccezionale e di irripetibile. Continuiamo a comportarci secondo le modalità di allora soltanto per forza di inerzia e accrescendo il debito. Il risveglio per gli illusi sarà molto brusco.
 Allora bisogna rassegnarsi ad accettare le linee di tendenza di un sistema in cui una minoranza della popolazione potenzialmente attiva lavorerà, producendo tutti i beni necessari all’intera società e godendo di compensi elevati, mentre alla maggioranza della popolazione, condannata alla disoccupazione, dovrà essere corrisposto un reddito di cittadinanza.
Per trovare le risorse necessarie a garantire il reddito di cittadinanza, bisognerà rivedere il welfare, riducendo ulteriormente le spese pubbliche per asili, scuole, servizi sanitari e per anziani, pensioni.
Occorrerà ragionare secondo altri parametri, entrare in un’altra logica. Per supplire alle lacune di un welfare sempre più misero, bisognerà potenziare il volontariato, lo scambio nell’ottica del dono, la solidarietà di paese, di quartiere, di caseggiato.
Dalla crisi occupazionale si esce pensando in grande.
Non sembra che i renzini ne siano capaci.

di Luciano Fuschini


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