sabato 30 giugno 2012

CGIA: IMPRESE IN AFFANNO, BOOM DELLE SOFFERENZE E PRESTITI IN CALO


Secondo un’analisi della CGIA di Mestre peggiora la situazione economico/finanziaria delle imprese italiane: ad aprile 2012 (ultimo dato disponibile) le sofferenze bancarie in capo alle nostre aziende hanno superato gli 82 miliardi di euro

Rispetto all'inizio dell’estate 2011, periodo in cui la speculazione finanziaria ha cominciato ad “aggredire” il nostro Paese,  le insolvenze sono aumentate del +11,9% (in termini assoluti pari a +8,7 miliardi di euro). Probabilmente questa situazione ha indotto moltissime banche italiane a ridurre progressivamente gli impieghi: una tendenza che la lettura delle statistiche ci conferma. Infatti, l’erogazione dei prestiti ha continuato  a scendere (-1,7% rispetto a giugno 2011), anche se ad aprile c’è stata una leggera inversione di tendenza che lascia presagire qualche piccolo segnale di ripresa. Nell’arco temporale preso in esame, ricorda la CGIA, l’inflazione è cresciuta del +3,1%.
La crescita delle sofferenze bancariedichiara Giuseppe Bortolussi segretario della CGIA di Mestreè la manifestazione più evidente dello stato di crisi delle nostre imprese. La cronica mancanza di liquidità e la prolungata fase di crisi economica che stiamo vivendo sono tra le cause che hanno fatto esplodere l’insolvibilità. Inoltre – prosegue Bortolussi – in questi ultimi 4 anni di difficoltà economica si sono ulteriormente allungati i tempi di pagamento nei rapporti commerciali tra le imprese e tra le imprese e la pubblica amministrazione. Per questo ci appelliamo al Premier Monti – prosegue Bortolussi -  affinché intervenga in tempi rapidissimi  e recepisca la Direttiva europea contro i ritardi dei pagamenti. Dobbiamo mettere fine a questo malcostume tutto italiano che sta gettando sul lastrico tantissimi piccoli imprenditori che si trovano a corto di liquidità anche perché non riescono a recuperare i propri crediti”.
L’analisi della CGIA di Mestre ha toccato un altro aspetto interessante.
A fronte di una progressiva contrazione  dei prestiti erogati alle imprese  – conclude Bortolussi – sono aumentate le segnalazioni di operazioni di riciclaggio sospette eseguite da intermediari finanziari: +243,6% dall'inizio della crisi alla fine del 2011.  Questo dato è molto allarmante perché ci segnala che, probabilmente, le organizzazioni criminali stanno approfittando di questa situazione per infiltrarsi nell'economia reale del Paese”.
Il risultato emerso dall'elaborazione fatta dalla CGIA di Mestre su dati UIF (Unità di Informazione Finanziaria) ci dice che, tra il 2008 e il 2011,  le segnalazioni di operazioni di riciclaggio sospette eseguite da intermediari finanziari sono passate da  14.069 a 48.344 (+243,6%). Grave la situazione registrata l’anno scorso nelle più importanti province italiane: a Roma si sono contate 5.677 segnalazioni; a Milano 5.083; a Napoli 4.266; a Torino 2.219 e a Bologna 1.006. 
Dalla CGIA fanno notare che la sommatoria delle segnalazioni registrate in queste 5 province è stata pari a quasi il 40% del totale registrato a livello nazionale.


venerdì 29 giugno 2012

IL NOSTRO MODELLO: SVILUPPO, LEGALITÀ E SOLIDARIETÀ (VIDEO)



Noi siamo qui, oggi, siamo qui per proporre un modello di governo per il Paese per il futuro. un modello, il che non vuol dire che noi e noi soli possiamo rappresentare questo modello.

Riteniamo che per prima cosa il Paese abbia bisogno di un governo politico scelto dai cittadini. Ma sulla base di cosa si deve arrivare a questo governo? Sulla base di un programma o di una sommatoria numerica?
Prima di parlare di intese con i moderati, bisognerebbe intendersi su che cosa vuol dire essere moderati. E’ moderato togliere l’art. 18 a difesa dei lavoratori? Beh, allora certo, io non sono moderato. Io sono moderato perché voglio difendere le uguaglianze. Lo diceva Gesù Cristo, prima di Marx e di Lenin.
Proprio perché si basa basata sul programma, la nostra non è una proposta chiusa. E’ il programma che deve fare la differenza, E’ l’ indicazione chiara della squadra e della coalizione che si presenta agli elettori. E’ l’indicazione della leadership sulla base delle primarie, anche se non è che se vince A invece di B il programma cambia. Alla base c’è sempre quello, il programma.
Allora su questi temi determinanti dei diritti sociali e civili noi invitiamo il Partito democratico a fare una scelta di campo invece di andare appresso alle logiche di Palazzo. La nostra proposta di un modello di governo, si fonda su tre pilastri che possono convivere e rappresentare la linea di demarcazione: Solidarietà, Legalità e Sviluppo.
All’interno di questo ambito Italia dei Valori e Sel sono già pronti e aperti a dialogare con tutti i soggetti e le formazioni politiche che ci vogliono stare. Vogliamo aprire un tavolo con i movimenti e con i soggetti della società civile, e anche con il Pd cui riconosciamo il merito di tante battaglie e che vorremmo riconoscere anche oggi invece di vederlo immerso in questa nebulosa di intenti che non comprendiamo.
Su questi temi sono disposto a confrontarmi con tutti, ma prendo atto del fatto che la politica portata avanti su questi punti da alcuni partiti tra cui l’Udc è diversa dalla nostra.
Invito tutti a leggere, sul sito della Corte dei Conti, la requisitoria che ha fatto ieri il Procuratore generale presso la stessa Corte dei Conti. Dice che si sono effettivamente avviate politiche di riduzione del debito e del deficit, ma ciò sta avvenendo ai danni dei più deboli e dei più onesti.
Questo è il discrimine del nostro programma. Né io né Nichi Vendola accetteremo mai di partecipare a una coalizione che fa quadrare i conti ai danni dei più deboli e dei più onesti. 



UCRAINA, LE ONG DENUNCIANO: "I SOLDI PER EURO2012 SOTTRATTI ALLA CURA DEI BAMBINI MALATI DI CANCRO"


oto: frontierenews.it

Kiev (Ucraina), 30 giugno 2012 – La notizia è uscita martedì sul Fatto Quotidiano[1], a tre giorni dalla sua pubblicazione, però, sembra non aver suscitato lo scalpore – e lo sdegno – che meriterebbe.

Secondo quanto scriveva Luca Pisapia martedì, nel denaro con il quale si è finanziato Euro 2012 ci sarebbe finito gran parte del denaro destinato al reparto di oncologia dell'ospedale pediatrico Oxkhmatdyt di Kiev, il cui ruolo – nell'ambito della cura dei piccoli pazienti – è più che strategico: la sua costruzione infatti garantirebbe la possibilità di fare operazioni di trapianto di midollo da non parenti senza che i piccoli siano costretti a forme di turismo sanitario verso altri Paesi, con il logico incremento dei costi per viaggio ed operazione.

«Col decreto governativo numero 433 del 21 maggio 2012, relativo ad alcune modifiche da apporre al programma statale per la preparazione e lo svolgimento della fase finale del Campionato Europeo di Calcio in Ucraina nel 2012» - si legge in una lettera aperta di diverse organizzazioni non governative, sia ucraine che internazionali - «il governo ucraino ha ridotto di 349 milioni di grivne (34,9 milioni di euro circa) le dotazioni del bilancio statale in precedenza allocate all'ospedale pediatrico Oxkhmatdyt, che sono passate da 399 a 50 milioni di grivne. E nello stesso decreto è stato deciso di aumentare le allocazioni destinate a Euro 2012 di 340 milioni di grivne, portando il totale destinato dal governo ucraino agli Europei a quasi 21 miliardi di grivne».

La mancanza di strutture adeguate – che si parli di Ucraina come del resto del mondo, naturalmente – evidentemente rende inapplicabile qualsivoglia possibilità di effettuare diagnosi in tempo utile per poter curare i bambini affetti da tumore (circa 2.000 all'anno, secondo i dati di Soleterre[2], una organizzazione non governativa che opera a livello mondiale nell'ambito dell'oncologia pediatrica e della neurochirurgia).

Un sistema, quello sanitario, che in Ucraina è stato ricreato già due volte: la prima dopo il crollo dell'Unione Sovietica, il secondo dopo Chernobyl (anno 1986), ed oggi nelle strutture preposte mancano sia pediatri che strumenti adeguati per controlli e cure.
Questo perché – così come avviene in Italia – il sistema sanitario ucraino è utilizzato per altri scopi, in particolare il riciclaggio di denaro sporco in quel connubio tra mafie, politici ed amministratori locali corrotti che in Italia non ha bisogno di essere spiegato. Il Ministero della Sanità, inoltre, avrebbe più volte acquistato farmaci falsi, tanto da costringere l'Organizzazione mondiale della sanità ad intervenire, monitorando alcuni dei laboratori da cui questi farmaci sarebbero partiti.

L'Ucraina non è peraltro nuova a finanziamenti promessi e non elargiti, come capitò nel 2006 con il “Children's Hospital of the Future Project”, con il quale si sarebbe dovuto creare un centro per ospitare i piccoli degenti insieme alle loro madri, che sarebbe dovuto diventare una «istituzione per la medicina pediatrica di livello europeo, con le tecnologie più avanzate, i migliori professionisti e le più importanti risorse intellettuali della sfera medica». A sei anni di distanza – e con un cambio di governo alle spalle - quel progetto aspetta ancora che dalle dichiarazioni si passi ai fatti.

In sostituzione dell'ospedale comunque, ai bambini è stato regalato un pallone, aggiungendo la beffa al danno, come si suol dire.

Note

giovedì 28 giugno 2012

IN GABON VA AL ROGO L' AVORIO ILLEGALE(VIDEO)


Bruciati  4.825 di avorio illegale, 1.293 pezzi di avorio grezzo e 17.730 lavorati, pari ad almeno 850 elefanti uccisi

Tolleranza zero dal presidente del Gabon che ha acceso il fuoco insieme a WWF e TRAFFIC

Con una dura sferzata contro il bracconaggio e il commercio illegale di specie selvatiche, il Gabon ha bruciato oggi al rogo la riserva di avorio illegale detenuto dal governo: 4.825 chili, con 1.293 pezzi di avorio grezzo, per lo più zanne, e 17.730 pezzi di avorio lavorato, per un totale che corrisponde a circa 850 elefanti uccisi. Ad appiccare le fiamme, il presidente del Gabon Ali Bongo Ondimba, insieme a WWF e TRAFFIC, in un momento particolarmente critico per il bracconaggio in Africa Centrale, dove l’uccisione illegale di elefanti per l’avorio ha raggiunto livelli record.
  
Il WWF e il TRAFFIC hanno lavorato con il governo del Gabon per catalogare in maniera indipendente la riserva di avorio prima che fosse distrutta, garantendo che tutte le zanne fossero incluse e nessuna scivolasse nel commercio illegale.
  
Il Gabon è per la tolleranza zero rispetto ai crimini contro le specie selvatiche e stiamo mettendo in campo le nostre leggi e le nostre istituzioni per garantire che questa politica sia rafforzata ha detto il presidente del Gabon, Ali Bongo.
LA TESTIMONIANZA WWF SUL POSTO.

“Il WWF, che si è impegnato anche in Italia per salvare ilCuore Verde dell’Africa e che nei prossimi mesi lancerà una specifica campagna contro il commercio illegale di natura, sostiene la decisione del Gabon e vede questo gesto come un segnale concreto dell’impegno del Paese per sconfiggere i bracconaggio e il commercio illegale dell’avorioha detto Isabella Pratesi, Direttore delle Politiche di Conservazione Internazionali del WWF Italia che in questi giorni è in Gabon e ha assistito allo straordinario evento –. L’avorio di origine illegale o sconosciuta non può essere venduto legalmente a livello internazionale per motivi commerciali. Il Gabon ha agito in maniera lodevole decidendo di rendere il proprio avorio inutilizzabile.

E’ stato emozionante e anche commovente partecipare a questo gesto di grande civiltà e di grandissimo valore per la conservazione degli elefanti nel cuore verde dell’Africa – continua Pratesi -. Tutti  noi delegati del WWF giunti in Gabon da varie parti del mondo (oggi erano rappresentati 25 uffici WWF nel mondo, dal Giappone all’Olanda) non abbiamo potuto non pensare a quegli 850 elefanti massacrati ma anche ai numerosi guardiaparco che, sostenuti anche dal WWF, ogni giorno rischiano la vita per contrastare il commercio illegale dell’avorio. Questa è una battaglia degli Stati africani ma può essere vinta solo con l’appoggio di tutti i Paesi e di tutta la società civile”.
  
Secondo il rapporto diffuso settimana scorsa dalla CITES, l’organo delle Nazioni Unite che regola il commercio illegale di specie selvatiche, il 2011 è stato un anno record per il bracconaggio degli elefanti in Africa. Si stima che decine di migliaia di elefanti vengano uccisi ogni anno in Africa per le loro zanne, per soddisfare in particolare la richiesta dei mercati asiatici.
  
Il commercio illegale dell’avorio è un problema di portata internazionale. Il Gabon, primo Paese in Centrafrica a distruggere pubblicamente il proprio avorio, è letteralmente assediato dalle bande di cacciatori illegali e da gruppi criminali che contrabbandano l’avorio verso l’Asia. Senza una forte reazione internazionale per fermare i crimini contro le specie selvatiche, e in particolare il contrabbando dell’avorio, le foreste del Gabon non vibreranno più del barrito degli elefanti di foresta – ha detto Lee White, segretario generale dell’Agenzia Parchi Nazionali del Gabon.
  
Dobbiamo rompere la catena del commercio illegale dell’avorio e del commercio illegale in tutti i Paesi a vario titolo coinvolti, compresi i Paesi europei e l’Italia  – ha detto Massimiliano Rocco, responsabile Specie, TRAFFIC e Foreste del WWF Italia – Questa volta la decisione è venuta dall’alto e deve essere di esempio. Molti ministri dell’Africa Centrale espongono fieramente pezzi di avorio lavorato nei loro uffici. Molti ufficiali del governo sono implicati nel traffico illecito dell’avorio. Tutto questo è alimentato anche da noi: in molti Paesi occidentali il commercio illegale dell’avorio è un fenomeno non ancora del tutto sconfitto. Dobbiamo lavorare tutti insieme affinchè tutto questo finisca”.

Se non gestiti correttamente, gli stock di avorio detenuti dai governi rischiano di essere immessi nel commercio illegale. Proprio settimana la scorsa lo Zambia ha dichiarato smarriti  3 tonnellate di avorio detenuto dal governo e il Mozambico ha smarrito 1,1 tonnellate a febbraio – ha conclusoMassimiliano Rocco del WWF Italia – “La decisione del Gabon di bruciare il proprio avorio toglie ai contrabbandieri ogni tentazione.
  
I governi dell’Africa Centrale si sono riuniti per cercare modalità concrete di superare la crisi firmando un piano regionale per rinforzare il presidio legale e affrontare meglio il bracconaggio di elefanti e altre specie minacciate dal commercio illegale di natura.

Per sostenere la campagna WWF per il Cuore Verde dell’Africa: wwf.it/greenafrica  

Fonte: http://wwf.it

INFLAZIONE: COLDIRETTI, COME IN GUERRA GIU’ CARNE E FRUTTA IN TAVOLA


Con la crisi si svuota il carrello della spesa con un impoverimento delle tavole degli italiani tipico dei momenti di guerra dovuto ad un crollo stimato del 2 per cento degli acquisti di prodotti alimentari in quantità.

E’ quanto afferma la Coldiretti nel commentare i dati Istat relativi all’inflazione che evidenziano un aumento del 4,4 per cento del carrello della spesa.

“Con la crisi le spese alimentari, considerate dagli economisti incomprimibili, nei budget familiari si riducono per effetto delle strategie di risparmio. La crisi ha tagliato la spesa di sei italiani su dieci (61 per cento) che hanno modificato al risparmio i propri comportamenti di acquisto confrontando con più attenzione i prezzi nel momento di riempire il carrello, ma anche riducendo gli acquisti come meno frutta (-3 per cento), vino (-2 per cento) o carne di maiale (-2 per cento) in tavola, secondo una analisi Coldiretti/Swg”.

Il 59 per cento degli italiani va alla ricerca delle offerte 3 x 2 in misura maggiore rispetto al passato per effetto della crisi che di fatto - sottolinea la Coldiretti - ha ridotto lo spreco di cibo nel 57 per cento dei casi anche ridimensionando le dosi acquistate (31 per cento). A crescere - conclude la Coldiretti - sono solo i modelli di spesa alternativa, dalle vendite porta a porta ai gruppi di acquisto solidale (Gas) fino alla spesa a chilometri zero direttamente dal produttore in netta controtendenza rispetto alle difficoltà del dettaglio tradizionale”. 

USAID, spie travestite da volontari


di Fabrizio Casari
Si chiamano USAID, NED, IRI e con tanti altri nomi, non è la fantasia che manca. Sono gli enti nordamericani che erogano fondi destinati alla destabilizzazione interna di paesi  che non dipendono dagli USA. Vengono venduti alle opinioni pubbliche come enti umanitari, ma sono una delle armi preferite dagli Usa nelle ingerenze interne ai paesi terzi. Travestiti da aiuti allo sviluppo, mascherati da sostegno alle ONG, tramite questi enti milioni e milioni di dollari provenienti dalle casse delle istituzioni statunitensi vengono destinati alle opposizioni nei paesi i cui governi risultano ostili a Washington.

Che poi ostili lo siano effettivamente (vedi Paraguay) è sempre dato da relativizzare, giacché per gli Usa il concetto di ostilità risulta decisamente esteso, abbracciando tutto ciò che non è la cieca obbedienza ai voleri della Casa Bianca. Non c’entra niente la democrazia, anzi: i migliori amici di Washington in tutto il pianeta, sono i governi autoritari e privi di legittimazione democratica. E non c’entrano niente nemmeno i diritti umani, dal momento che chi più li viola appare decisamente schierato tra  quei stessi regimi, fidi sostenitori del Washington consensus.

A ridurre il peso specifico sullo scacchiere internazionali dei cosiddetti paesi ostili vengono destinate risorse d’ogni tipo: dalle guerre ai blocchi economici, dal terrorismo alla fornitura di armi agli oppositori, dall’isolamento diplomatico alla negazione dei prestiti internazionali.
Ma dove per qualsivoglia ragione questi elementi non risultassero applicabili o, comunque, non sufficienti a determinare il risultato sperato, da diversi anni il governo degli Stati Uniti ha scoperto l’utilità e la percorribilità della sovversione interna ai paesi ostili tramite azioni di diversa natura e utilizzando strumenti, tecniche e risorse destinate alla bisogna. Il cyberspazio e i programmi cosiddetti di “aiuto” sono due elementi decisivi di queste strategie.

E se per quanto riguarda l’utilizzo della Rete le attività sono principalmente svolte dall’interno del territorio statunitense, per quanto attiene al sostegno delle opposizioni interne gli strumenti utilizzati sono ormai di consuetudine l’invio di denaro e di funzionari travestiti da ONG con lo scopo di alzare il livello della conflittualità interna ai paesi che si vogliono attaccare.

Dall’Europa dell’Est all’America latina, dai paesi del Maghreb all’Asia, la destabilizzazione socio-politica dei regimi ostili vede il dispiegarsi di miriadi di fondazioni, Ong, associazioni tutte formalmente all’opera per allargare la democrazia, ma tutte sostanzialmente fondate, finanziate e dirette da Washington.

Le ambasciate statunitensi sono infatti il collante operativo e la copertura diplomatica per la maggior parte di queste organizzazioni é il mantello che le copre. Le loro attività - sulle quali amano romanzare gli adepti nelle redazioni dei giornali amici - sono spacciate in chiave umanitaria dalla potenza di fuoco mediatica statunitense, che si adopera per venderle come indipendenti, disinteressate e al servizio delle istanze democratiche.

Nessuna di queste, ovviamente, opera in forma visibile nei paesi amici di Washington; sono tutte allocate nei cosiddetti paesi ostili, dal momento che la scacchiera sulla quale gli Usa muovono le pedine è comunque, sempre, quella avversaria.

Nei bilanci pubblici di molte delle istituzioni pubbliche e delle associazioni private statunitensi impegnate nella sovversione interna ai paesi ostili emergono con chiarezza cifre e flussi di investimenti che dagli Stati Uniti vengono destinati allo scopo e leggendo con attenzione tra i bilanci si possono trovare le tracce della diplomazia parallela della Casa Bianca.

In una intervista al New York Times nel 1991, Allen Weinstein, uno dei fondatori della NED, disse che “quello che fa la NED oggi è quello che un tempo veniva fatto in maniera clandestina da venticinque anni dalla CIA”. E Marc Plattner, un vice-presidente della NED, spiegò a sua volta così il ruolo dell’organizzazione: “Le democrazie liberali favoriscono chiaramente gli accordi economici che fomentano la globalizzazione e l’ordine internazionale che sostiene la globalizzazione si basa nel predominio militare americano”.

Ogni bel gioco, però, dura poco e i primi segnali dell’inversione di tendenza arrivano proprio dall’America Latina, dove i Ministri degli Esteri dei paesi dell’ALBA (Bolivia, Venezuela, Ecuador, Repubblica Dominicana, Nicaragua, Cuba), riuniti in Brasile, hanno proposto ai rispettivi governi l’espulsione dai loro paesi del personale in forza all’Usaid.

Nel comunicato diramato al termine del vertice, i capi della diplomazia del blocco democratico latinoamericano propongono il provvedimento di espulsione: “In ragione dei progetti che destabilizzano i governi, esercitando una indebita interferenza nelle questioni politiche interne” i paesi dell’ALBA “considerano che la loro presenza costituisce un elemento di perturbazione che attenta contro la stabilità e la sovranità dei paesi”.

L’USAID è accusata di finanziare giornali, ONG, partiti e organizzazioni sindacali - spesso inesistenti negli stessi paesi - in una chiara e sfacciata intromissione negli affari interni, con il proposito di cospirare ed elevare il conflitto politico interno. Nessuna opera caritatevole, nessun aiuto disinteressato, nessun beneficiario e men che mai anonimo: denaro copiosamente inviato a organismi anti-governativi che proprio in ragione del dichiararsi tali percepiscono quote significative. E il business gira: tanto più elevata sarà la capacità di questi di dimostrarsi attivi, tanto più alto, percentualmente, saranno le somme che arriveranno dall'USAID.

Quanto alla storiella degli aiuti disinteressati dell’USAID, i ministri degli Esteri latinoamericani affermano  di non avere “nessuna necessità di organizzazioni tutelate da potenze straniere che, in pratica, usurpano e debilitano la presenza degli organi dello Stato impedendogli di sviluppare il ruolo che gli corrisponde nello sviluppo economico e sociale delle nostre popolazioni”, conclude il documento.

Nelle stesse ore nei quali il documento veniva diramato, il governo di Washington negava il via libera ai crediti internazionali per il Nicaragua, a dimostrazione di come gli aiuti siano solo la faccia pubblica di politiche cospirative. I prossimi giorni diranno come si evolverà la questione, ma per quanti sforzi di maquillage la Casa Bianca metterà in campo, i suoi funzionari, anche se travestiti da volontari, dovranno fare le valigie. 

INFLAZIONE: PER L’AUMENTO DEI PREZZI E DELLA TASSAZIONE LE RICADUTE A FAMIGLIA NEL 2012 RAGGIUNGONO QUOTA +2.474 EURO.


Continuiamo a ritenere gravissimo il livello raggiunto dal tasso di inflazione, che a giungo è tornato al 3,3%.

Siamo di fronte ad una situazione terribile, una vera e propria fase di stagflazione dell’economia, in cui i prezzi salgono (tra l’altro in maniera del tutto ingiustificata), ma l’economia non cresce.

Il PIL è in calo, e in assenza di misure di rilancio a nostro parere nel 2012 supererà il -2%. Sul fronte dei prezzi, invece, stiamo assistendo ad una crescita molto forte del tasso di inflazione: +0,5% nel 2009, +1,5% nel 2010, +2,8% nel 2011, fino ad arrivare al 3,3% di giugno.

Crescita che continuiamo a ritenere ingiustificata ed ingiustificabile, a maggior ragione alla luce del dato odierno sul prezzi alla produzione, in calo a maggio dello 0,3%, nonché alla luce della forte contrazione dei consumi (che ha raggiunto il -2,5% nel settore alimentare).

Senza interventi determinati per arginare le speculazioni in atto, soprattutto nel settore alimentare, il tasso di inflazione a fine anno rischia di schizzare anche al 4-5%.

Inutile dire quanto tutto ciò sia preoccupante e drammatico per le famiglie e per il Paese intero. Anzi, forse è utile ribadirlo, per ricordare che, piuttosto che discutere sulle ferie dei parlamentari, è ora di darsi una mossa per risollevare le sorti della nostra economia.” – dichiarano Rosario Trefiletti ed Elio Lannutti.

Di questo passo ci troveremo di fronte a una perdita insostenibile del potere di acquisto delle famiglie (che già si è contratto del -9,8% dal 2008), addirittura clamorosa se sommiamo la convergenza delle ricadute dirette ed indirette dell’aumento della tassazione all'impatto che l’inflazione al 3,3% ha sui bilanci delle famiglie (come illustrato nella tabella che segue).

La ricaduta complessiva sarà di +2.474 Euro a famiglia, sempre che il tasso di inflazione si fermi a questi livelli.
Aumenti 2012 a famiglia
Ricadute indirette ed indirette dell’aumento della tassazione 1.484,00
Ricadute inflazione                                                            €   990,00
Totale                                                                              2.474,00

Per questo si rende sempre più urgente rilanciare il potere di acquisto delle famiglie e gli investimenti per lo sviluppo tecnologico nel nostro Paese, traendo le risorse necessarie  dove ce ne sono in abbondanza, soprattutto con la lotta all’evasione e la maggiore tassazione di grandi patrimoni, rendite e transazioni finanziarie.


GLI SCIENZIATI: "ARRIVERÀ TERREMOTO MAGNITUDO 7.5 RICHTER IN SICILIA E CALABRIA"


Oggi sembra esser la "giornata delle previsioni delle catastrofi". Dopo aver pubblicato l'articolo che illustra la previsione del prof. Dobran della "New York University", il quale ipotizza che il Vesuvio erutterà improvvisamente con una forza distruttiva mai vista, vi proponiamo un articolo che illustra invece le previsioni di alcuni esperti che prevedono un forte terremoto - magnitudo 7.5 Richter - in Calabria e Sicilia. Ma se non altro, mentre la questione del Vesuvio è stata censurata, di queste previsioni ne hanno parlato anche i video...


Previsione del grande terremoto della Calabria e della Sicilia orientale nel 2012
L'ultima "previsione" in fatto di terremoti arriva dall'Enea di Bologna: "A breve, tra la Calabria e la Sicilia, potrebbe verificarsi un sisma distruttivo, di magnitudo 7,5″, ha detto Alessandro Martelli, presidente del centro ricerche Enea di Bologna, ovvero l'Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l'energia e lo sviluppo economico sostenibile. Un'autorità scientifica insomma.

Martelli specifica: "Un terremoto catastrofico, molto più forte di quello dell'Emilia di questi giorni o dell'Aquila, potrebbe colpire e distruggere il Sud Italia, nei prossimi mesi o entro due anni".

Un allarmismo che però non viene condiviso dall'Ingv, ovvero la massima autorità in fatto di terremoti. Il presidente Stefano Gresta ha commentato: "Si sta facendo allarmismo, e in qualche modo anche terrorismo approfittando dell'emotività del momento per fare pressione e accaparrarsi qualche centinaio di milioni di euro per la prevenzione sismica.

Sappiamo che la Sicilia orientale è ad alto rischio sismico, ma lo sappiamo non perché ora sarebbe stato messo a punto un esperimento scientifico, ma da quello che ci dice la storia. Le previsioni attualmente hanno un margine di errore e di incertezza troppo ampio per poter essere utilizzate nella pratica.

E chi ha fatto quelle previsioni non ha detto quanti falsi allarmi ha generato negli anni quello strumento, quante volte è stato previsto un evento che poi non si è verificato. E che facciamo, spostiamo milioni di persone per due anni e blocchiamo mezza Italia per un evento che magari poi non si verificherà?".

L'Ingv sta sperimentando un algoritmo di previsione che, riguardo l'Emilia, dà con una certa probabilità un terremoto di magnitudo superiore a 4 o a 5.5.

Fin qui, il dibattito scientifico. Ma l'argomento "terremoto in Calabria e Sicilia" ha interessato il web, dove ci si imbatte in profezie di ogni sorta. C'è addirittura chi dà date precise ispirandosi alle teorie di Raffaele Bendandi, noto profeta di terremoti mai riconosciuto dalla comunità scientifica: il 3-4-5-6 giugno Calabria e Sicilia rischiano a causa del transito di Venere davanti al Sole.

mercoledì 27 giugno 2012

FORNERO SHOCK: "IL LAVORO NON È UN DIRITTO" MA LA STAMPA ASSERVITA RIPORTA TUTT'ALTRO...


Dopo la scandalosa dichiarazione di Monti, secondo il quale i giovani si devono abituare ad essere precari, senza tenere conto che la disoccupazione giovanile in Italia è del 36% e che tra un lavoro e l'altro potrebbero esserci mesi, anni di disoccupazione (tra l'altro hanno rivisto i requisiti per gli ammortizzatori sociali) dal governo arriva un'altra dichiarazione scandalosa in tema lavoro, l'ennesima dichiarazione infelice della Fornero, che probabilmente, non avendo esperienza politica - cioè non avendo l'abitudine a mentire e rilasciare esclusivamente dichiarazioni propagandistiche, belle parole fini a se stesse - si lascia sfuggire dalla bocca quello che pensa, e questi suoi pensieri non sono confortanti. 
La ministro del welfare, anziché preoccuparsi di migliorare lo stato sociale, si preoccupa di smantellarlo...

Di seguito l'articolo di Pietro Yates Moretti per ADUC

E’ scoppiata l’ennesima polemica sulle dichiarazioni del ministro del Welfare Elsa Fornero che avrebbe detto al Wall Street Journal: “il lavoro non è un diritto”.

Evidentemente, posta cosi’, non vi è dubbio che sembra contraddire il primo comma dell’art. 4 della Costituzione: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.”

Ma cosa ha davvero detto la ministra? Lo si vede andandosi a rileggere i transcriptdell’intervista, che il quotidiano statunitense ha reso disponibili insieme all'articolo:

"That includes youth, who need to know a job isn't something you obtain by right but something you conquer, struggle for and for which you may even have to make sacrifices."

Letteralmente: "E questo include i giovani, che devono sapere che un (posto di) lavoro non è qualcosa che si ottiene di diritto ma qualcosa che devi conquistare, faticare e per il quale potresti dover fare anche dei sacrifici".

Notare che in inglese, “a job” vuol dire appunto “un posto di lavoro”. La ministra ha detto più o meno quello che dice la nostra Costituzione, come peraltro interpretata -già dal lontano 1965- dalla Corte Costituzionale: “i principi generali di tutela della persona e del lavoro … non si traducono nel diritto al conseguimento ed al mantenimento di un determinato posto di lavoro” (vedi ordinanza 56/2006)
Ecco quindi una polemica inventata, alimentata da una stampa che nel limitarsi a riportare le varie reazioni politiche strampalate, non si preoccupa di andare a leggere cosa sia stato effettivamente detto informandone i lettori.
Facciamo questo appunto non tanto per entrare nel merito delle dichiarazioni della ministra, ma per mettere in evidenza quanto il dibattito politico italiano sia incentrato sul nulla e i danni che questo urlio ci ha provocato e ci provoca, distogliendo l’attenzione sui veri problemi. Il tutto alimentato da una stampa pigra, compiacente e spesso pronta a cavalcare le polemiche invece di fare ciò che dovrebbe: informare.

La riforma della politica italiana passa anche da una profonda autoriforma del giornalismo nostrano, ovvero di quel “potere” che dovrebbe vigilare sui governanti e informare i cittadini per permettere loro di fare scelte adeguate. E non invece trasformarsi in una sorta di megafono del nulla. 

VUOI FUMARTI UNA CANNA? VAI IN URUGUAY


Il Governo ha presentato un progetto di legge per la legalizzazione, regolata e controllata, di produzione e commercializzazione della marijuana. Obiettivo: combattere il potere del narcotraffico

Si appresta a diventare il primo paese al mondo a legalizzare l’uso, la vendita e la produzione di marijuana. «Qualcuno deve pur cominciare. L'Uruguay è un Paese piccolo, e qui sarà più facile capire se la liberalizzazione funziona». Un progetto di legge introdotto dal partito del presidente José Mujica, un ex-guerrigliero di sinistra, è stato presentato in parlamento, dove l’approvazione è sicura, poiché lo sostengono anche le forze d’opposizione. L'Uruguay è dunque intenzionato a diventare il primo Stato al mondo produttore legale di marijuana.

A partire da settembre il governo di Montevideo destinerà 100 ettari a piantagioni di cannabis e la prima raccolta avverrà dopo sei mesi. Si prevede una produzione di 27 tonnellate l'anno, destinata agli oltre 100 mila consumatori del Paese. Due gli obiettivi del provvedimento: ridurre il potere delle gang criminali che sfruttano il commercio di cannabis e possibilmente distogliere anche i consumatori da droghe pesanti come la cocaina.  L'idea di Mujica fa parte di un pacchetto sicurezza di 15 punti e dovrà essere approvata dal Congresso.

Non dovrebbero esserci problemi, perché il suo Frente Amplo controlla la maggioranza dei seggi. Mujica è un ex guerrigliero tupamaro, al potere dal 2010, e finora ha retto l'Uruguay con moderazione. Lo spinello di Stato non ha nulla di ideologico, assicurano a Montevideo, ma è una scelta razionale per contrastare la violenza legata al narcotraffico e contenere il salto dei giovani verso droghe più pesanti. Chi vorrà comprare legalmente fino a 30 grammi di «erba» al mese dovrà iscriversi in una lista ufficiale. Non sarà permessa la vendita a stranieri, per evitare un turismo del consumo e il traffico illegale resterà proibito. «Siamo convinti che la proibizione di certe droghe abbia creato più problemi alla società che le droghe stesse», afferma il ministro della Difesa Huidobro.

Lo Stato sarà l'unico produttore autorizzato, si useranno per la vendita intermediari privati, ma il ricavato nelle casse pubbliche verrà destinato a finanziare progetti di riabilitazione dalle droghe pesanti. Ma le critiche al progetto, dentro e fuori l'Uruguay, non mancano. Obiezioni etiche a parte, viene ribadito l'argomento che una decisione del genere non può essere unilaterale. «Servono azioni comuni - dice dalla Colombia Juan Manuel Santos - perché le distorsioni create tra un Paese che legalizza e un altro dove è tutto proibito possono aggravare il problema». 

ROMA: FARE COMUNITÀ, UNICA VERA RICETTA PER USCIRE DALLA CRISI


Città accogliente e inclusiva, tenuta insieme da famiglie e reti informali. I disagi sociali: 106mila famiglie a basso reddito, 107mila non autosufficienti, 80mila disabili, 74mila giovani che non studiano e non lavorano, 63mila disoccupati di lungo periodo, 29mila persone con almeno cinquant’anni alla ricerca di un lavoro. I tagli al welfare imposti dal governo potrebbero colpire fino al 40% dei beneficiari. Si può ripartire creando occupazione: 400mila romani pronti a mettersi in proprio

Una città accogliente e inclusiva. A Roma più di un maggiorenne su tre (850mila persone) non è nato nella capitale. I maggiorenni romani di seconda generazione, con entrambi i genitori nati a Roma, sono 626mila. Gli altri hanno almeno un genitore nato altrove o non sono nati a Roma. La capitale è da sempre una città che accoglie e integra persone provenienti da territori vicini e lontani, un formidabile magnete che attrae persone a caccia di opportunità: 350mila sono gli stranieri residenti, 145mila le persone di almeno 18 anni nate in altri comuni del Lazio, 97mila quelle provenienti dalla Campania e 78mila dalla Puglia. Riguardo alle province di provenienza, prevale quella di Roma (da dove arriva l’8,6% dei non nativi), seguono quelle di Napoli (6,5%), dell’Aquila (3,5%), poi Latina, Foggia, Frosinone e Bari. La comunità romana è il frutto di persistenti flussi di persone in entrata, per questo ancora oggi si può dire che «romani si diventa».

La famiglia vero «tondino» della comunità. Le relazioni familiari sono il cuore della comunità romana: dall’affettività alle esigenze concrete, tutto ruota intorno alla famiglia, tanto che si tende, per quanto possibile, a vivere in prossimità dei parenti. Più del 50% dei romani con almeno 18 anni abita con i genitori o vive a un massimo di 30 minuti a piedi da loro (un quarto vive a meno di 15 minuti). Il 48% ha parenti stretti a un massimo di 30 minuti a piedi dalla propria abitazione (il 33% a meno di 15 minuti). Nella scelta dell’abitazione, oltre al prezzo e alle caratteristiche, conta la possibilità di vivere nei pressi di genitori, parenti, amici: il 67% dei romani ha amici stretti a un massimo di 30 minuti a piedi da casa. La famiglia è uno degli attori decisivi del welfare romano: nella capitale ci sono 45mila famiglie con badanti, 20mila con baby sitter, 265mila contano su forme di aiuto familiare. Si stima che le famiglie spendano per badanti e baby sitter circa 800 milioni di euro all’anno. Ci sono poi le spese per servizi e prestazioni di tutela: in un anno 853mila famiglie hanno sostenuto spese sanitarie private, 508mila hanno pagato le attività sportive, 91mila lezioni private (ripetizioni scolastiche, attività formative, ecc.), 424mila polizze assicurative private (sanitarie, previdenziali, ecc.).

Il collante delle reti informali, dal volontariato all’associazionismo. Quasi 470mila romani dichiarano di dedicarsi in modo regolare (213mila) o saltuariamente (253 mila) ad attività di volontariato informale e organizzato. Si tratta di più di 61mila giovani con età fino a 29 anni, 125mila adulti con età tra 30 e 44 anni, 170mila tra 45 e 64 anni, 110mila anziani. Il 45% dei romani è iscritto o partecipa alle iniziative di varie associazioni (sportive, ambientaliste, culturali, ecc.) presenti in modo capillare sul territorio.

L’importanza delle relazioni di prossimità, dal vicinato al quartiere. La comunità romana è tenuta insieme da famiglie e reti informali. La prossimità territoriale conta meno, ma guai a cedere a visioni riduttive dei quartieri, anche periferici, perché ovunque in città, periferie incluse, esiste una fitta rete di relazioni sul territorio. Il vicinato è considerato dal 30% dei romani una forma di comunità dove ci si conosce, frequenta ed eventualmente aiuta. Il quartiere è per molti uno spazio di relazioni importante, visto che il 36% dei romani dichiara di partecipare ad attività ed eventi che si realizzano nei territori, il 32% svolge gran parte delle relazioni sociali in piazza o al bar, il 25% è direttamente coinvolto nella soluzione dei problemi del quartiere.

I disagi sociali a Roma. Come in tutte le grandi città, a Roma è presente una pluralità di forme di disagio sulle quali occorre intervenire. Ci sono 107mila non autosufficienti e 80mila disabili, 74mila giovani che non studiano e non lavorano, 131mila persone che vorrebbero andare a vivere per conto proprio ma non ci riescono a causa dei costi elevati delle case, 63mila disoccupati di lungo periodo, 29mila persone con almeno cinquant’anni alla ricerca di un lavoro, 106mila famiglie a basso reddito, nelle quali si contano 62mila persone che lavorano (working poor). Si stimano in circa 40mila le famiglie in cui si sommano almeno tre forme di disagio. E crescono le vulnerabilità potenziali. C’è stato un vero boom del numero di persone che vivono sole: 303mila in più negli ultimi dieci anni. Dai disagi nasce una domanda imponente di welfare che Roma deve affrontare, con il rischio che i tagli imposti dal governo colpiscano in città fino al 40% degli attuali beneficiari di servizi, interventi, prestazioni di assistenza.

Boom delle persone sole. A Roma è esploso il numero delle persone sole, quelle che fanno famiglia a sé. Erano 292mila nel 2001, sono diventate 596mila nel 2010 (303mila in più), con un ritmo di crescita media annua del 7,4%. I nuclei unipersonali in città erano poco più del 28% del totale delle famiglie romane nel 2001, sono diventati il 44% nel 2010. Nel quinquennio più recente (2005-2010) l’incremento è stato ancora più intenso: +11,7% pari a 62.500 persone in più. Il boom è evidente nel Municipio I (+29%, 12mila persone sole in più) e nel Municipio VIII (+36%, 9.200 persone sole in più). Incrementi percentuali a due cifre si sono registrati anche nei Municipi VII (+14,6%), XII (11,4%), XIII (+16,5%), XIX (+13%) e XX (+10,8%).

Non c’è il rischio banlieue a Roma. Il 55% dei residenti in periferia definisce medio il livello socio-economico della propria famiglia, un dato analogo a quello rilevato nei quartieri semiperiferici e del centro. E il disagio a Roma non è concentrato come nelle banlieue parigine. Nei rioni del centro ci sono più famiglie con persone non autosufficienti (l’8% contro il 7% della periferia), mentre nei quartieri periferici sono più alti i livelli di disagio nel rapporto con il lavoro (il 6% di famiglie con giovani che non studiano e non lavorano e il 6% con disoccupati di lungo corso). Nella periferia prevale l’eterogeneità sociale, con una robusta presenza di impiegati (il 46% dei capofamiglia contro il 37% registrato in centro), insegnanti (il 6% contro il 10%), liberi professionisti (il 14% contro il 26%). Nei quartieri della periferia le famiglie proprietarie dell’abitazione in cui vivono sono l’82%, rispetto al 71,5% registrato nei quartieri del centro. Il 78% delle abitazioni in periferia ha il collegamento a Internet, il 77% in centro.

Tutto intorno a me. I servizi e le attività che i romani si trovano a una distanza di quindici-venti minuti a piedi da casa: la spesa alimentare (l’89,4% dei residenti) e quella non alimentare (70,5%), le pratiche spirituali, come andare a messa (87,3%), la cura del corpo, dallo jogging alla palestra, alla piscina (75%), il medico di medicina generale (74,9%), gli spazi di gioco per i bambini (73,2%), i servizi sociali di riferimento (57,4%), la scuola per i figli (54,4%), cinema, teatri e musei (38,2%). Il 20% dei romani arriva al posto di lavoro in quindici-venti minuti a piedi, il 32% in meno di mezz’ora, il 34% entro un’ora, il 14% in un’ora e mezza al massimo, e solo il 20% impiega più di un’ora e mezza.

Il destino futuro della città secondo i romani e i «nuovi romani». Nel 2020 Roma sarà più aperta al mondo (lo pensa il 76% dei romani), più dinamica (72%) e più solidale (59%). Molto positiva anche la visione dei migranti, vero motore della crescita della città, visto che l’80% è qui per restare e il 62% ha aspettative crescenti, con la convinzione che i figli staranno meglio di loro. Per i romani la città è comunque destinata a correre verso il meglio. Di questo sono ancora più convinti i migranti: il 60% ritiene che nei prossimi cinque o dieci anni i più bravi riusciranno a emergere nel mondo del lavoro, per il 50% accadrà altrettanto nell’imprenditoria per gli immigrati che hanno la grinta per farcela, il 65% crede che i figli dei migranti riusciranno sempre di più a superare le difficoltà nella scuola e quelli con più talento si affermeranno.

2025: una città di longevi, di donne, di stranieri. Nel 2025 abiteranno a Roma 158mila persone in più, pari al 5,7% in più dell’attuale popolazione, che supererà i 2,9 milioni di persone. Aumenteranno di più le donne (+6,6%, 97mila in più), le persone in età attiva, di 15-64 anni (+4,7%, 85mila in più), gli anziani, con 65 anni e oltre (+15,8%, 92mila in più), gli ultraottantenni (+43,7%, 73mila in più). Due saranno le tendenze forti della popolazione cittadina: longevità e femminilizzazione. E le donne saranno la componente di gran lunga più consistente dei longevi: nel 2025, dei 677mila anziani che abiteranno a Roma, 405mila saranno donne. Se proseguiranno i trend registrati finora, nel 2025 a crescere di più saranno ancora i Municipi VIII (+48%, 49mila residenti in più) e XIII (+26,5%, 57mila in più).

Via libera alla voglia di autoimpiego, risorsa per una buona politica sociale cittadina. Date le dinamiche demografiche e l’evoluzione dei bisogni sociali, non ci sarà budget pubblico in grado di finanziare una copertura adeguata nel prossimo futuro se non riparte la creazione di occupazione. Servono 53mila posti di lavoro di qui al 2020 per mantenere l’attuale livello di occupazione e 203mila per raggiungere il tasso di benchmark europeo. Decisiva sarà la capacità di attivare la voglia di autoimprenditorialità che si stima possa coinvolgere complessivamente 400mila romani. Infatti, 161mila cittadini si dichiarano intenzionati ad aprire una piccola impresa, 135mila un’attività commerciale, 103mila un’attività artigianale, 99mila una cooperativa sociale insieme ad altre persone. La capitale non ha bisogno di grandi carrozzoni pubblici per creare occupazione fittizia, ma di condizioni favorevoli per dispiegare le sue energie potenziali. Così il lavoro potrà essere il vero veicolo della coesione comunitaria.

Valorizzare le diversità, impedire che diventino fratture. Tolleranti (38%), generosi (24%), collaborativi (21%) e laboriosi (19%): sono questi gli aggettivi con cui i romani si descrivono. Ci sono però diversità che rischiano di generare slabbramenti del tessuto cittadino e una potenziale conflittualità. I romani si sentono più distanti in primo luogo dalle persone con una diversa posizione politica (37%), poi da quelle appartenenti a un’altra classe sociale (21%), un altro livello culturale (18%), un’etnia diversa (13%), un’altra religione (12%), un altro quartiere (10%), un’età differente (8%). Riguardo ai valori di cui la città avrà più bisogno per essere migliore, è il rispetto quello richiamato più spesso (51%), poi la solidarietà (40%), la tolleranza (33%), la responsabilità (19%), la moralità (15%). Il rispetto è un valore indispensabile affinché diverse identità e aspettative, stili di vita e interessi differenti, molteplici traiettorie socio-economiche possano coesistere virtuosamente, senza diventare fonte di una conflittualità diffusa.

Questi sono i principali risultati del rapporto «Il valore del sociale a Roma», presentato oggi da Giuseppe De Rita, Presidente del Censis, nell’ambito degli Stati Generali del Sociale e della Famiglia di Roma Capitale, a cui sono intervenuti, tra gli altri, il Sindaco di Roma Gianni Alemanno, il Vicesindaco Sveva Belviso, l’Assessore alla Famiglia, all’educazione e ai giovani Gianluigi De Palo, il Ministro per la Cooperazione internazionale e l'Integrazione Andrea Riccardi, il Vescovo ausiliare di Roma Guerino Di Tora.

LIBERARCI DAL PESO DEL DEBITO PER RICONQUISTARE SOVRANITÀ


Fonte:www.italiaglobale.it

Non ci fa solo dipendere dai mercati finanziari internazionali, ma produce anche un rallentamento del Pil. Che storicamente è cresciuto in media del 3,9% annuo con un rapporto debito/Pil sotto il 90% ed è sceso dell’1,1% con un rapporto superiore al 90%.

A partire dagli anni 2000, l’Italia è cresciuta in termini demografici, con il 7% in più di residenti, persino gli occupati sono aumentati dell’8%, ma il Pil si è fermato a solo il 4,1% in più in termini reali. Continueremo a essere eterodiretti finché permarrà la zavorra del debito pubblico e la dipendenza dall’andamento dello spread. Perché il debito copiosamente accumulato nel ventennio passato non ci fa solo dipendere in misura eccessiva dai mercati finanziari internazionali, ma ci ha tolto anche slancio nella creazione di valore. Oltre alle fragilità derivanti dai costi del rifinanziamento, il debito eccessivo produce un rallentamento del tasso di crescita del Pil, perché determina alta tassazione e bassi investimenti pubblici, provocando il calo dei consumi privati, l’indebolimento della domanda aggregata interna, la riduzione dell’autonoma iniziativa dei cittadini e quindi un calo dell’imprenditorialità. L’ultimo ventennio è stato infatti caratterizzato da un crescente indebitamento e da una bassa dinamica del Pil. A partire dal 1861, il Pil italiano è cresciuto mediamente del 3,9% annuo quando il rapporto debito/Pil si manteneva al di sotto del 90%, mentre è sceso mediamente dell’1,1% nei periodi in cui il rapporto era superiore al 90%. Gli interessi pesavano 10 punti di Pil nel 1990, saliti a 12,6 punti nel 1993, per poi scendere progressivamente fino a 4,6 punti nel 2010, l’ultimo annuo di tregua prima della risalita dello spread.

La via più efficace per ridurre il debito non è coercitiva. Ogni ulteriore forma di tassazione o di imposta patrimoniale andrebbe esclusa, per gli effetti ulteriormente depressivi sull'economia e la società che ne deriverebbero. Per recuperare le risorse necessarie occorre utilizzare il patrimonio pubblico. Ma oggi la vendita delle partecipazioni sarebbe controproducente, visti gli attuali andamenti di borsa. E la dismissione del patrimonio immobiliare non sarebbe conveniente, con un mercato stagnante come in questa fase. Sarebbe più efficace un conferimento degli asset a fondi o altri strumenti di intermediazione che possano produrre risultati immediati attraverso la sottoscrizione di quote da parte dei cittadini.

Ma bisogna anche ricostruire la politica dalla rappresentanza, che persegua interventi di medio-lungo termine sui conti pubblici, a livello nazionale, e svolga un ruolo attivo nell'adeguamento degli strumenti di governo monetario, a livello europeo e globale. Oggi il qualunquismo, incattivito dalla crisi e dalle scarse prove di sé date da istituzioni e forze politiche, si esercita nella delegittimazione di ogni luogo di decisione istituzionale e di ogni forma di rappresentanza sospettata di continuità con il passato, spingendo il personale politico all'ansiosa rincorsa delle esasperazioni antipolitiche del momento. Ricomporre mosaici di domande sociali differenziate è difficile, soprattutto in fasi di crisi. Confrontarsi con orientamenti mutevoli è complicato, soprattutto quando non si possiedono paradigmi interpretativi consolidati e si è sottoposti a continue tensioni delegittimanti. Ma non c’è altra strada se non quella della ricostruzione della capacità di dare rappresentanza ai tanti soggetti e interessi che innervano il tessuto socio-economico del Paese attraverso il radicamento nei luoghi materiali (i territori) e virtuali (le reti sociali) dove essi si manifestano. 

«Le uscite possibili» è l’argomento di cui si è parlato oggi al Censis, a partire da un testo elaborato nell’ambito dell’annuale appuntamento di riflessione di giugno «Un mese di sociale», giunto alla ventiquattresima edizione, dedicato quest’anno al tema «La crisi della sovranità». Sono intervenuti il Presidente del Censis Giuseppe De Rita, il Direttore Generale Giuseppe Roma, Giuliano Amato, Giuliano Ferrara, Massimo Franco, Antonio Pedone e Mario Sarcinelli.