domenica 20 novembre 2011

ARCHIVIATO IL BERLUSCONISMO. SICURI, SICURI?

Per molti sociologi politici e analisti dei media, l'avvento (forse inconsapevole) della carriera politica di Silvio Berlusconi coincide con la nascita del programma televisivo Drive In (1983-1988) e conosce un'ulteriore slancio con Striscia La Notizia (1988-oggi).

Entrambi i programmi, creati da Antonio Ricci che ne è anche il regista, hanno contribuito alla formazione dell'opinione pubblica televisiva italiana con efficacia pari ai programmi con cui la Rai degli anni '50-'80 ha alfabetizzato il Paese. Il primo format ha offerto uno spettacolo del tutto nuovo rispetto al passato: intrattenimento non colto, comicità fin troppo popolare, donne belle e discinte, un generale e generico invito all'edonismo negli anni del secondo boom economico. Striscia, invece, continua ad apparire il simbolo della libertà del cittadino e della difesa dei suoi interessi contro i poteri forti: chiama la redazione, denuncia una truffa, ti aiuteremo.

Questo meccanismo è tipico del giornalismo d'inchiesta, ma possiede al suo interno uno straordinario elemento di furbizia: Striscia non ha mai puntato ai palazzi del potere e al disvelamento delle trame che regolano i meccanismi di funzionamento del Paese (come, ad esempio, fanno programmi come Report o Presa Diretta), limitandosi ad attaccare, spesso in modo seriale e ricorsivo, categorie economico/sociali già oggetto di pesanti elementi di diffidenza: cartomanti, maghi, medici, faccendieri di ogni sorta. Inoltre, ben più importante, rappresenta un'alternativa anarcoide alla giustizia. Se la polizia o la finanza non mi sta a sentire, se la legge è troppo lenta (o comunista, ultimo aggiornamento dei tempi), meglio chiamare Striscia, perché ho qualche possibilità in più di essere tutelato. E così un programma che dovrebbe tutelare i cittadini, non si sa bene come e quanto volontariamente, protegge il potere.

All'armamentario dei format bisogna aggiungere ovviamente altri capolavori: il Grande Fratello e Uomini e Donne, in particolare, che rappresentando ogni segmento demografico riducono la possibilità che esista una 'periferia percepita' e attenuano il disagio da esclusione sociale. Se il tamarro, il figlio di criminale, l'omosessuale, l'immigrato (tenuti insieme come prototipi, come animali da zoo) sono in tivù, allora esistono, hanno una loro dignità e offrono la sensazione, chiaramente illusoria (o mediata da cene eleganti) che tutti in Italia possano farcela, in qualsiasi momento e senza alcuno sforzo.

E come dimenticare la categoria dei programmi domenicali, o dei contenitori pomeridiani di soft-news, in cui politici, soubrette, opinionisti, giornalisti, blogger, ex-qualcosa, neo-qualcosaltro discutono di qualsiasi tema, senza alcuna discontinuità: dalle corna dei personaggi famosi alla morte di Gheddafi, dai loden di Monti alla riforma delle pensioni, dalle dimissioni di Berlusconi al testamento biologico, spesso con l'obiettivo neanche troppo mascherato di dividere l'Italia in due tifoserie. Esattamente come Berlusconi ha diviso il mondo in suoi sostenitori e comunisti, escludendo altre categorie come destra e sinistra, legalità e illegalità, riformisti e conservatori.

La somma dell'audience di questi programmi è stata storicamente e straordinariamente superiore alla somma di tutti i programmi che Berlusconi ha provato a far chiudere.

La forza del potere politico di Berlusconi risiede nella possibilità, pressoché unica nel mondo, di piegare a interessi personali e politici tutte queste tendenze tipiche dei consumi mediali. Il berlusconismo è questo: non è la videocrazia in sè, ma l'uso della videocrazia per generare consenso, possibile solo in assenza di precise regole sul conflitto di interessi. La televisione è diventata simile in tutto il mondo, l'Italia al massimo ci è arrivata prima, come spesso accade. La differenza, storicamente sottovalutata dai politici di sinistra e ancor più gravemente dai pensatori e dagli intellettuali progressisti, è che Berlusconi e la sua squadra può analizzare in modo scientifico i gusti, le opinioni, le passioni a scopi contemporaneamente di mercato (Mediaset) e di voto (Forza Italia e Pdl). I dati sono gli stessi, la ricerca è di un solo tipo, i risultati sono doppi e interconnessi. 

Da anni siamo spettatori di una nuova televisione dell'accesso, non più pubblica ma privata, non più orientata al pluralismo e alla rappresentanza sociale ma che usa una presunta democrazia rappresentativa dell'audience, di tipo top-down (quasi un ossimoro) per vendere spazi pubblicitari (Mediaset), distrarre e calmare gli animi (Berlusconi al Governo), parlare di ciò che in Italia non funziona (Berlusconi all'opposizione).

Per tutte queste ragioni ho provato un sentimento di sconforto, quasi di rabbia, per come le principali firme nazionali hanno analizzato la rapida fine dell'esperienza di governo di Silvio Berlusconi. Negli ultimi quindici giorni abbiamo letto di tutto: una serie interminabile di "è finita" (quotidianamente smentita dai fatti e dagli articoli su Berlusconi degli stessi giornali che avevano troppo rapidamente archiviato la pratica), ricostruzioni biografiche su uomini spenti, depressi, isolati poi rovesciate il giorno dopo con annunci, a dire il vero altrettanto poco credibili, dei fedelissimi del Cavaliere, ma soprattutto istantanee ricostruzioni fotografico/narrative degli anni del potere berlusconiano, con tanto di anno di inizio (1993, ignorando i precedenti undici anni di berlusconismo senza potere) e di fine (2011). Manco fosse morto.

L'ex-Premier, ne sono certo, avrà trovato nuova linfa vitale da quelle date e pregusterà il momento dell'attività parlamentare del 2012 quando, per sua decisione (il Pdl è l'unico partito che può impedire le riforme, specie quando la penserà come la Lega), bloccherà qualcuna delle iniziative promosse dal governo Monti per poi dire che non solo non è finito, ma che la stampa di sinistra lo aveva dato per morto troppo presto.

Abbiamo già letto della fine di un ciclo o dell'inizio della terza Repubblica, spesso teorizzata attraverso un confronto tra l'estetica del governo Monti e quella del governo Berlusconi per magnificare un'improvvisa e taumaturgica inversione di tendenza culturale. Il confronto tra estetiche è però un altro retaggio tipico del berlusconismo. Abbiamo letto del confronto tra curricula di chi c'era prima e di chi c'è oggi. In molti casi il confronto professionale è davvero impietoso, ma se la democrazia fosse una questione curriculare, se gli Stati fossero governi degli ottimati, forse non ci dovrebbe essere il suffragio universale e certamente Berlusconi non avrebbe governato per tutto questo tempo. E comunque, giudicare un Governo prima di iniziare è un azzardo di cui i media risponderanno in caso in cui Monti dovesse avere qualche difficoltà, senza trarre alcun vantaggio di credibilità nel caso in cui tutto scorresse liscio (sono i migliori, non poteva andare diversamente). 

Se decidessero solo gli addetti ai lavori e gli appassionati di politica, se la rielezione dei grandi leader dipendesse solo da dati economici o comunque oggettivi, se tutti leggessimo i giornali, l'Italia sarebbe un Paese certamente diverso. Ma Tg1 e Tg5, da soli, fanno il 40% di share quando va male. Ogni giovedì Don Matteo, da solo, raccoglie molto più share della somma di Servizio Pubblico, Piazza Pulita e La Versione di Banfi, per citare uno degli infiniti casi di questi ultimi vent'anni di analisi ingenue sulla socializzazione politica in Italia.  

Berlusconi è in fase calante, inevitabilmente. Non fosse altro per una questione anagrafica. Finirà, sta finendo. I verbi al passato non si possono però usare fino a quando la situazione politica è questa. È finita quando è finita. Nessuno si è sognato di dire che il Muro di Berlino era crollato prima che ciò accadesse (citazione non casuale: in molti hanno paragonato la caduta di Berlusconi a quella della fine della guerra fredda).

Ciò che rimane intatto e rimarrà intatto, a meno che il governo Monti non realizzi una legge durissima sul conflitto di interessi (con quale maggioranza?), è il motore della sua azione politica: la prossimità tra media e potere. Aljazeera il problema se lo è posto: Italy's media overhaul? Prime minister Berlusconi is out, but will media reforms begin in Italy

Anche se Berlusconi dovesse finire, non è finito il sistema che lo ha portato al Governo. Il Cavaliere non ha bisogno di essere in politica per fare politica: ha la sua macchina dell'immaginario (versione buona) e quella del fango (versione cattiva). Questo anno e mezzo di tempo extra che le contingenze gli hanno offerto sarà usato per organizzarsi e gli regala, nella peggiore delle ipotesi, la possibilità di costruire un leader giovane, nuovo, moderno, 'venduto' come discontinuo rispetto al passato, magari capace coi nuovi media, che rappresenti i suoi interessi se sarà al Governo, evitandogli tralaltro la seccatura della straordinaria amministrazione dei Presidenti del Consiglio, esponendo meno le sue aziende agli umori dei mercati, permettendo all'Italia di ottenere le riforme tanto attese e lavorando sottotraccia per proteggersi. Ha puntato su Alfano. Ha tempo per cambiare idea. Ha tempo per fare un sacco di cose.

Io continuerò a studiarlo.

di Dino Amenduni

Fonte: http://www.valigiablu.it

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