giovedì 16 giugno 2011

CENSIS: EGOISMO E INDIFFERENZA NON BASTANO PIÙ?

Per il 54,7% degli italiani siamo un Paese in cui conta l’interesse individuale

Secondo la percezione comune, individualismo, egoismo e indifferenza sono tratti ormai profondamente radicati nella nostra società, probabilmente destinati a perdurare. In base a un’indagine del Censis, il 54,7% del campione descrive l’Italia fra dieci anni come un Paese ancora fortemente caratterizzato dall’attenzione esclusiva all’interesse individuale. Lo affermano soprattutto i residenti nelle grandi città (60,3%) e nel Nord-Est (60,4%). Il 51,7% degli italiani pensa, inoltre, che i rapporti di vicinato e di amicizia fra le persone siano destinati a indebolirsi.

Certo, se si riflette sulle più gravi forme di disagio per la società italiana fra dieci anni, al primo posto figura la disoccupazione di lunga durata (per il 64,1% della popolazione), poi la povertà economica (39%), la non autosufficienza degli anziani (26,6%), l’immigrazione clandestina (25%), la tossicodipendenza (15,6%), fino all’isolamento sociale inteso come mancanza di relazioni e affetti (12,5%).

La diffusione a macchia d’olio delle grandi patologie individuali, sia quelle di evidente rinserramento interno (depressione, anoressia, dipendenza da droghe, fino al suicidio), sia quelle di crescente indifferenza alla vita collettiva (stanchezza di vivere, rimozione delle responsabilità, crisi della empatia nelle relazioni interpersonali), è il sintomo della crisi antropologica che sta attraversando la società italiana. I sintomi depressivi, indipendentemente dal fatto che si arrivi a formulare la diagnosi di depressione, colpiscono il 9,4% della popolazione.

Se il soggetto è metro di tutte le cose e dunque fa, pensa, progetta riferendosi solo a se stesso, allora saltano le regole, come se le leggi non valessero più, come se quello che prima era condannato e perseguito oggi è legittimato ed esaltato. Non a caso, i tifosi denunciati per episodi di violenza negli stadi sono passati da 684 a 999 tra il 2002 e il 2008 (+46%).

Un altro atteggiamento sempre più diffuso è l’insensibilità rispetto al dolore e alle sventure altrui. Non si tratta solo dell’indifferenza per i barconi degli immigrati che affondano in mare, ma di una forma di «desensibilizzazione», di «anestesia sociale», una sorta di innalzamento della soglia in grado di attivare atteggiamenti di pietas e comportamenti di partecipazione.

Nella società anomica e disgregata, il singolo mette in atto le proprie strategie difensive di adattamento alla mutata situazione, arrivando al ripiegamento individuale. Alla fermata dell’autobus o della metropolitana ci si guarda intorno sospettosi (il 34% dei cittadini in una grande città come Roma, più che a New York, Mosca o Mumbai), non si vede l’ora di tornare a casa per chiudersi la porta alle spalle. Si ha paura degli zingari: il 25,6% a Roma, più che in tante altre città del mondo. Allora la casa viene vissuta come un fortino personale, dove difendersi anche installando un sistema di allarme, una porta blindata o le inferriate (il 58,8% dei residenti a Roma).

La paura può avvitarsi, può diventare una strega ipnotica e non lasciare scampo. Lo è ancora di più se si è fragili, se non si è centrali nel ritmo di vita pulsante e caotico della società dei consumi: è la paura di non trovare il lavoro o di perdere quello che si ha, di non reggere alla competizione, di essere inadeguati.

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