martedì 28 dicembre 2010

IL BASTONE DELL'INDIA SUL KASHMIR

di Michele Paris
Tra i documenti pubblicati a getto continuo da Wikileaks, negli ultimi giorni spiccano alcuni cablo redatti tra il 2005 e il 2007 dall’ambasciata statunitense a Nuova Delhi, che descrivono la condizione dei diritti umani in Kashmir. I resoconti in questione parlano apertamente di torture e abusi, eseguiti impunemente dalle forze di sicurezza operanti nell’unico stato indiano a maggioranza musulmana con la connivenza del governo centrale. Perfettamente a conoscenza dei fatti, gli Stati Uniti hanno tuttavia deciso di tacere su questi crimini, continuando a perseguire una politica di avvicinamento verso l’importantissimo alleato asiatico. 

Nel primo cablo riservato, inviato dall’allora ambasciatore David C. Mulford al Dipartimento di Stato americano nell’aprile del 2005, si fa riferimento a un rapporto confidenziale del Comitato Internazionale della Croce Rossa consegnato ad alti funzionari dell’ambasciata. In esso vengono descritte le “gravi e diffuse torture nelle prigioni indiane del Kashmir tra il 2002 e il 2004”. Nonostante il consolidato dialogo tra l’istituzione umanitaria e il governo indiano, prosegue l’ambasciatore, “il persistente abuso dei detenuti ha spinto la Croce Rossa a concludere che Nuova Delhi approva la tortura”.

Secondo quanto riferito ai diplomatici americani dalla Croce Rossa, ad essere sottoposti ai metodi di tortura non sono tanto i militanti anti-indiani (i quali generalmente vengono giustiziati sommariamente dalle forze di sicurezza) quanto piuttosto cittadini comuni accusati o sospettati di aver fornito assistenza agli stessi attivisti, oppure di possedere preziose informazioni su di essi.

Lo stato indiano di Jammu e Kashmir è situato all’estremo nord del paese ed è conteso tra India e Pakistan (e in parte dalla Cina), i quali hanno combattuto almeno tre conflitti a partire dalla partizione dell’India britannica nel 1947. Dopo le contestate elezioni del 1987, nella regione si crearono vari gruppi militanti, che condussero ben presto alla nascita di un movimento di resistenza armato contro il dominio indiano.

Il rapporto diffuso da Wikileaks continua poi con il riassunto da parte dell’ambasciatore americano a Nuova Delhi dei dati forniti dalla Croce Rossa nella sua attività tra i centri di detenzione del Kashmir. L’indagine coinvolge 177 carceri con 1.491 interviste a detenuti. Di questi, ben 852 hanno subito una qualche forma di abuso, come elettro-shock, percosse e fratture, simulazione di annegamento e abusi sessuali. Delle torture, sottolinea la Croce Rossa, si sono resti protagonisti indistintamente tutti i reparti delle forze di sicurezza indiane.

Del trattamento riservato al Kashmir dai governi della cosiddetta più grande democrazia del pianeta, rendono conto in realtà da tempo svariate organizzazioni a difesa dei diritti umani. La pubblicazione dei documenti da parte di Wikileaks testimonia tuttavia in maniera inequivocabile di questi orrori, grazie all’accesso diretto garantito alla Croce Rossa nelle carceri indiane. Tale concessione viene infatti riservata dai governi all’associazione con sede a Ginevra, in seguito alla tradizionale politica di non divulgare pubblicamente i risultati dei sopralluoghi effettuati, così da rimanere neutrale e conservare appunto la possibilità di accedere alle strutture detentive per svolgere la propria attività umanitaria.     

Nel caso del Kashmir, però, al Comitato Internazionale della Croce Rossa la situazione appariva talmente seria da dover informare gli americani. Il ricorso ad abusi e torture durante gli interrogatori dei detenuti - ribadisce la Croce Rossa - era stato segnalato al governo indiano da almeno dieci anni, senza che tali pratiche fossero state interrotte.

La consegna del rapporto all’ambasciata USA a Nuova Delhi, coerentemente con la retorica di un governo come quello di Washington che si proclama difensore dei diritti umani in tutto il pianeta, nelle intenzioni della Croce Rossa doveva verosimilmente spingere le autorità americane a denunciare pubblicamente gli abusi, ma il rapporto sul Kashmir è caduto invece nel vuoto.

L’attività repressiva in Kashmir, nonostante tutto, appariva a metà di questo decennio relativamente attenuata rispetto agli anni Novanta del secolo scorso, quando ad esempio i militari indiani erano soliti invadere villaggi nelle ore notturne, arrestando arbitrariamente centinaia di persone. Questo giudizio della Croce Rossa, in ogni caso, deve tener conto del fatto che non le fu mai concesso di visitare il cosiddetto “Cargo Building”, cioè il più famigerato carcere del Kashmir, situato nella capitale dello stato, Srinagar.

Il divieto imposto dalle autorità centrali indiane faceva parte di una strategia mirata a restringere le attività della Croce Rossa stessa, secondo la quale “il Ministero dei Affari Esteri si era lamentato della presenza del Comitato Internazionale della Croce Rossa a Srinagar”, chiedendo “la conclusione delle sue operazioni e mettendo in guardia da contatti non autorizzati con elementi separatisti”.

L’assenso alla repressione in Kashmir anche da parte della politica locale è confermato da un secondo cablo reso noto da Wikileaks e datato 2007. In esso, l’ambasciata americana riferiva a Washington di un deputato del Parlamento del Jammu e Kashmir, Usman Abdul Majid, definito il leader di una milizia filo-indiana, “nota per l’impiego di metodi di tortura, uccisioni extra-giudiziali, stupri ed estorsioni ai danni di civili sospettati di proteggere o assistere terroristi”.

Se anche a Washington si era ben consapevoli delle gravissime violazioni dei diritti umani in Kashmir, nulla è stato fatto per richiamare il governo indiano. Anzi, dagli Stati Uniti si è continuato ad esaltare pubblicamente le solide fondamenta democratiche dell’India, anche per questo un naturale alleato degli Stati Uniti in Asia. L’amministrazione Bush, addirittura, nel 2008 premiò Nuova Delhi con la stipula di un accordo del tutto eccezionale per l’accesso al nucleare civile, nonostante l’India non avesse mai ratificato il Trattato di Non Proliferazione.            

Allo stesso modo, Barack Obama ha recentemente ribadito l’importanza strategica della partnership indo-americana. Nel corso della sua visita lo scorso novembre, il presidente democratico ha anche appoggiato pubblicamente l’assegnazione all’India di un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU, mentre ha accuratamente tralasciato qualsiasi riferimento alla situazione in Kashmir.

Le rivelazioni di Wikileaks rendono così ancora una volta giustizia di una diplomazia americana interamente contraddistinta dalla doppiezza e dall’ipocrisia, indipendentemente dal partito e dal presidente al potere. Se condanne esplicite per la violazione dei diritti umani vengono emesse di frequente dal Dipartimento di Stato e dalla Casa Bianca - cui fa seguito una puntuale campagna mediatica - esse sono rigorosamente risparmiate ai paesi alleati.

La difesa dei diritti umani nel mondo da parte degli USA è del tutto subordinata alla difesa dei propri interessi strategici, come dimostra la questione del Kashmir. L’India risulta infatti sempre più un partner fondamentale per il contenimento dell’espansionismo cinese nel continente asiatico.

I documenti appena diffusi sul Kashmir dal sito fondato da Julian Assange, infine, non hanno sollevato particolari polemiche sui media indiani, né reazioni troppo spazientite nel mondo politico. Le autorità locali si sono più che altro rimbalzate le responsabilità per abusi che continueranno a rimanere impuniti.

L’attuale partito al governo nella regione ha accusato per le torture commesse nel recente passato l’opposizione. Quest’ultima ha ribadito a sua volta di non volere accettare lezioni sui diritti umani. Non più tardi dell’estate scorsa, d’altra parte, le forze di sicurezza hanno represso nel sangue le dimostrazioni spontanee degli abitanti del Kashmir, scoppiate in seguito all’assassinio di un ragazzo da parte della polizia indiana, provocando oltre un centinaio di morti.
di Michele Paris

Fonte: http://www.altrenotizie.org/

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