sabato 27 novembre 2010

UN TRAMONTO PERICOLOSO

di Marino Badiale e Massimo Bontempelli.

Il decennio segnato in Italia dall'egemonia politica di Berlusconi sta per concludersi con il tramonto del grottesco cesarismo berlusconiano. Eventuali successi di qualche iniziativa dello stesso Berlusconi volta a ricostituire la sua maggioranza di governo non potranno impedire il suo tramonto, di cui, al massimo, saranno rallentati i tempi. 

Una forza politica antisistemica come Alternativa deve ovviamente interrogarsi sulle prospettive che così si aprono. Questa riflessione è iniziata con gli interventi di Giulietto Chiesa e Fabrizio Tringali, che questo nostro intervento intende proseguire ed approfondire.             

Se vogliamo capire in quale situazione ci farà trovare la fine dell'egemonia politica di Berlusconi, dobbiamo capire il suo inizio, cioè le ragioni che l'hanno prodotta. Un uomo politico riesce a segnare la storia di un paese quando le sue aspirazioni personali entrano in sintonia con le tendenze di strati sociali significativi, per cui capire le ragioni che hanno fatto dell'ultimo decennio un decennio berlusconiano, equivale a capire le dinamiche sociali allora operanti in Italia.

La sostanza del “fenomeno Berlusconi” ci sembra la seguente: Berlusconi è riuscito a scalare tutti i gradini del potere economico e politico perché ha saputo trarre decisivi vantaggi competitivi da una sistematica e sfacciata violazione di ogni regola esistente. Negli anni Sessanta era soltanto un palazzinaro di modeste risorse, a cui spesso difettavano i denari da investire in nuove costruzioni. Benché partito da questa modesta base economica, negli anni Settanta è diventato il più grande imprenditore edile milanese, perché non ha rispettato quasi nessuna regola dell'attività edilizia legale, e perché i suoi cantieri hanno veicolato capitali della mafia siciliana.

Berlusconi non era un mafioso, ed all'inizio è stato piuttosto ricattato dalla mafia palermitana dei Bontade, ma questo rende ancora più significativo il fatto che egli si sia affermato violando le regole, perché lo ha fatto sfruttando una situazione esistente che gli consentiva di farlo.

Negli anni Ottanta è diventato il più grande imprenditore televisivo italiano perché ha violato le regole allora esistenti sull'emittenza televisiva, sancite addirittura da una sentenza della Corte Costituzionale del 1976.

Anche in questo caso, lo ha fatto perché poteva farlo, in quanto era protetto dal governo sfacciatamente corrotto di Bettino Craxi, al quale in cambio offriva il sostegno delle sue televisioni.

Negli anni Novanta, prima ancora di presentarsi alle elezioni con un suo partito, ha manovrato sempre più enormi risorse finanziarie (senza le quali non avrebbe potuto primeggiare anche in politica) grazie a molteplici illeciti finanziari e a massicce evasioni fiscali, sfruttando la nota tolleranza dello Stato italiano verso gli evasori.

L'intera vicenda mostra che Berlusconi non è l'uomo che ha inventato i mali italiani, ma è quello che ha saputo trarne il massimo vantaggio, e che, di conseguenza, ha contribuito ad aggravarli e diffonderli.

Berlusconi, in altre parole, è emerso ai vertici del potere italiano sull'onda di un preesistente e contestuale sviluppo, nel nostro paese, di un capitalismo mafioso associato ad uno Stato debole.

Parliamo di capitalismo mafioso non nel senso stretto della parola, cioè di un capitalismo i cui capitali provengano dai guadagni delle attività della criminalità organizzata, ma in un senso più lato e significativo. Può considerarsi mafioso un capitalismo predatorio di risorse pubbliche, di cui si appropri al di fuori di ogni regola attraverso gli esiti dei suoi conflitti interni e che può divorare i beni pubblici in quanto non siano operanti regole che li proteggano dai commerci illeciti, dalle speculazioni finanziarie, e dal consumo del territorio.

Al capitalismo mafioso così inteso è coessenziale un controllo sulla politica, per controllare la concessione degli appalti e l'erogazione della spesa pubblica. Ciò presuppone, a sua volta, uno Stato debole, dove per “debole” si intende qui politicamente incapace di dettare e far rispettare regole generali che disciplinino il perseguimento degli interessi economici particolari.

L'egemonia politica di Berlusconi è quindi stata espressione dell'ascesa al potere di una serie di potentati affaristici interni al capitalismo mafioso nell'accezione suddetta.

Alla luce di questo contesto dell'egemonia politica di Berlusconi, appare chiaro il motivo profondo del suo attuale tramonto. Nessun regime istituzionale, infatti, può reggersi di fronte alla violazione totale e sistematica delle sue stesse regole. Ogni regime conosce fenomeni più o meno estesi di illegalismo rispetto ai suoi propri principi di legalità. Se però l'arbitrio dei suoi poteri diventa l'unico principio regolatore dei rapporti economici e sociali, l'organizzazione sociale e politica si sfalda alla fine, necessariamente, in una arena di feudi affaristico-criminali in lotta tra loro.

La ragioni del tramonto del grottesco cesarismo berlusconiano stanno quindi niente affatto dall'urto esercitato si di esso da qualche forza di opposizione, ma nella disgregazione interna delle medesime forze sociali che lo avevano a suo tempo sostenuto.

Da questa analisi, se è corretta, si possono trarre precise indicazioni per il futuro, che sono le seguenti.

In primo luogo, la fine dell'egemonia politica di Berlusconi non rappresenterà alcun indebolimento di quel capitalismo mafioso su cui la sua egemonia è stata costruita. Le forze sociali costitutive del berlusconismo rimarranno forti ed operanti come prima.

In secondo luogo, le tensioni interne al capitalismo mafioso che sono all'origine del tramonto di Berlusconi non verranno attenuate, ma si riproporranno addirittura accentuate, sia per il crescente morso della crisi economica, sia per l'uscita di scena di Berlusconi. Fino ad ora, infatti, tali tensioni sono state attenuate proprio perché si sono trasferite sul personaggio Berlusconi, creando l'illusione prima che potessero essere regolate in maniera soddisfacente dal suo potere arbitrale, poi, che, rimosso Berlusconi, sparirebbero diversi problemi creati soltanto dai suoi interessi personali.

Naturalmente non sarà così.

Dopo Berlusconi continueranno come prima, ed anzi più di prima gli scontri fra cordate affaristico-mafiose prive delle risorse con cui soddisfare la famelicità di tutte, e tra gruppi sociali sempre più estesi investiti dal malessere sociale.

Assisteremo ad uno sgranarsi di episodi di guerra civile strisciante, non tra partiti o ideologie, ma tra gruppi sociali e territoriali.

In terzo luogo, i governi che succederanno a quelli di Berlusconi potranno essere molto più decenti e presentabili sul piano interno e internazionale.

Il loro modo di operare all'interno dei palazzi del potere sarà certamente meno scorretto, sguaiato e indecente di quello dei ministri dell'epoca berlusconiana. Tuttavia non saranno assolutamente in grado, per ragioni che qui sotto molto succintamente esponiamo, di contrastare la virulenza e la proliferazione del capitalismo mafioso che sta divorando l'Italia, e quindi di arrestare i processi di decadenza civile e sociale dl paese.

L'errore più grave che si possa commettere in questa situazione è infatti quello di considerare ragionevole puntare anche su forze interne all'attuale ceto politico per scalzare definitivamente Berlusconi. Si tratta di un'illusione ottica creata da una forte e naturale pressione emotiva: cosa può esserci di peggio di un Berlusconi che capovolge la situazione e riconquista governo e maggioranza? Cosa ci può essere di più orrendo di una maggioranza parlamentare che elegga Berlusconi presidente della Repubblica, e quindi “custode e garante” della Costituzione? Cosa ci può essere di più pericoloso di una dittatura berlusconiana sulla vita politica del paese? Questi esiti appaiono così ripugnanti ad ogni persona sensata da far pensare che valga la pena, pur di evitarli, di promuovere alla guida del governo persino capi politici come Bersani, Rutelli e Casini.

Chiunque, insomma, andrebbe bene purché Berlusconi uscisse dalla scena.

Se ci si affida alla razionalità si può capire quanto questa impostazione sia sbagliata. Per comprenderlo facciamo un passo indietro nella storia di questo paese.

Berlusconi ha conquistato la guida del governo una prima volta con le elezioni del marzo 1994, sull'onda di un sostegno popolare assai vasto, che aveva però il suo asse portante nelle forze e nelle capacità di influenza del capitalismo mafioso. Ciò nonostante il suo governo è durato soltanto dieci mesi, e nel 1995 l'evoluzione della vita politica italiana sembrava averlo messo definitivamente da parte.

Il suo ritorno alla guida del governo nel 2001, con maggiore stabilità e più penetranti poteri, è avvenuto perché negli anni Novanta il capitalismo mafioso si è rafforzato e maggiormente diramato nel paese. In quegli anni, però, non ha governato la destra, ma il centro-sinistra, con maggioranze estese fino a Rifondazione comunista. La logica implicazione di ciò è che i governi di centro-sinistra non hanno contrastato, ma anzi favorito, lo sviluppo di forze sociali a cui Berlusconi apparteneva e da cui traeva sostegno.

Sei anni di governi con maggioranze di centro-sinistra, dunque, hanno concimato il terreno per i successivi trionfi berlusconiani.           

Né è difficile trovare fatti che costituiscano prove decisive di ciò che abbiamo visto implicato dalla stessa logica dell'intera vicenda. Secondo il senso comune di sinistra, uno dei migliori governi dell'epoca è stato quello diretto da Carlo Azeglio Ciampi. Non c'è dubbio che Ciampi sia una persona sobria ed individualmente per bene (lontanissimo dall'indecenza dei “berluscones”), e tuttavia è stata la sua legge bancaria, emanata con decreto legislativo del 1° settembre 1993, ad aprire alle banche le praterie delle acquisizioni azionarie di società industriali e delle speculazioni finanziarie, fornendo così un alimento decisivo allo sviluppo del capitalismo mafioso.

Ed è stato il decreto-legge di Ciampi del 24 settembre 1993 a sancire che per le privatizzazioni che stavano per essere avviate non dovessero valere le regole della contabilità generale dello Stato, aprendo la strada alle svendite sottocosto e corruttive dei beni pubblici.              

Grazie a questa legge l'IRI di Romano Prodi ha potuto consegnare a prezzi irrisori, alla fine del 1993, una delle maggiori banche pubbliche italiane, il Credito Italiano, a una cordata di finanzieri italiani e stranieri (che l'hanno pagata in parte con danaro prelevato dalla banca stessa), dando così una spinta decisiva ad un finanziarizzazione dell'economia funzionale allo sviluppo del capitalismo mafioso.

Il primo governo Prodi, uscito dalle elezioni del 1996, che nel senso comune della sinistra passa come uno dei migliori governi dell'ultimo ventennio, ha dato il massimo impulso alla finanziarizzazione dell'economia e al capitalismo mafioso con la sciagurata privatizzazione della STET nel 1997, senza la quale non avrebbe potuto verificarsi, anni dopo, il saccheggio della Telecom da parte di Tronchetti Provera, e l'uso della Telecom stessa per finalità illecite.

Naturalmente ognuno di questi punti, e diversi altri ancora, andrebbero spiegati per esteso e nel dettaglio, cosa che qui non è sensato fare.

Quel che vogliamo dire è che l'epoca dei governi del centro-sinistra degli anni Novanta non ha favorito la rinascita di Berlusconi soltanto in quelli che sono considerati dall'opinione pubblica di sinistra i suoi “errori” (il non aver affrontato la questione del conflitto d'interessi di Berlusconi ed averlo legittimato come padre costituente nella Bicamerale di D'Alema), ma l'ha favorita anche e soprattutto con tante scelte di promozione del capitalismo mafioso che quell'opinione pubblica di centrosinistra ha voluto dimenticare.

Berlusconi, sconfitto alle elezioni del 2006, è tornato al governo più prepotente di prima dopo altri due anni di governo Prodi.

Insomma, ogni volta che ha governato il centro-sinistra, non ha fatto che preparare la strada al ritorno di una destra ancora più incarognita.

Tutto ciò dipende dal fatto che il ceto politico di centro-sinistra non ha, per ragioni che tra poco diciamo, mezzi culturali, le competenze, e le intenzioni concrete, di modificare le linee di tendenza dello sviluppo socio-economico. Ma se queste tendenze non vengono modificate, l'Italia non può che precipitare sempre più nel baratro. In maniera del tutto indipendente dal fatto che chi la dirige sia una personalità indecente come Berlusconi, o una personalità più o meno presentabile o addirittura soggettivamente in buona fede.

Questa sostanziale contiguità del ceto politico di centrosinistra col berlusconismo è chiaramente percepibile da una stridente contraddizione fra le parole e i fatti: da una parte Berlusconi viene denunciato a sinistra come un pericolo per la democrazia e le istituzioni, dall’altra non si traggono le conseguenze di queste denunce, che dovrebbero necessariamente essere l’isolamento politico di Berlusconi, il rifiuto di qualsiasi forma di dialogo e di collaborazione, il boicottaggio e l’ostruzionismo rispetto a ogni sua azione e proposta.     

Torniamo alla situazione del nostro paese. L'Italia sta precipitando in un baratro spaventoso perché disfatta da un triplice collasso: della sua coesione sociale (crescenti ineguaglianze di reddito, devastante precarizzazione del lavoro e della vita, assenza di tutele sociali), del suo territorio (inquinamento dell'aria dei suoli e delle acque, dissesto idrogeologico, invasione dei rifiuti), e della sua vita civile (corruzione generalizzata e capillare, giustizia lenta e costosa, mancanza di senso morale nelle relazioni sociali, inversione tra meriti e demeriti). 

Ad evitare l'ulteriore caduta del paese in questo spaventoso precipizio, non servono a nulla (ma proprio a nulla, se si vuol pensare secondo razionalità, e quindi secondo moralità) uomini di governo più seri e misurati dell'indecente classe politica berlusconiana e dei barbarici leghisti.               

Servono soltanto personalità di governo capaci di invertire le tendenze al baratro di cui si è detto, ricostituendo ed ampliando i diritti sociali degli individui, bloccando ogni nuova opera sul territorio e curandone invece una capillare manutenzione, facendo subito diminuire la produzione di rifiuti e di agenti inquinanti, accettando e potenziando il controllo giudiziario sulla criminalità, colpendo duramente ogni infiltrazione della malavita nella politica.

Se queste cose non vengono fatte, e fatte rapidamente, ogni altra forma di differenza tra i politici sul piano dell'estetica e della decenza personali, e persino delle intenzioni soggettive, è del tutto irrilevante.

Il capitano di una nave, su cui si sono aperte falle che certamente la faranno affondare, se non si impegna a chiudere quella falle, non è in niente più utile di un capitano precedente, anche se non è rozzo e prepotente come quello, e se tiene più pulita la nave.

Il ceto politico di sinistra non è in grado di tamponare le falle che portano alla rovina l'Italia. Esso infatti è stato selezionato, al pari dell'intero ceto politico italiano, entro istituzioni pubbliche e private costitutive dell'autoreferenzialità di una politica incapace di incidere sulle dinamiche economiche, e quindi inevitabilmente orientata ad un rapporto affaristico con l'economia.

La differenza rispetto ad una parte almeno del ceto politico del primo centro-sinistra dei primi anni Sessanta è enorme. Si pensi a ministri democristiani come Sullo, ad economisti cattolici come Saraceno, a socialisti come Lombardi e Giolitti, e a diversi altri esponenti della politica e della cultura politica: essi miravano ad incidere sull'economia e avevano le capacità per farlo.

Nessun politico di oggi ha simili capacità, e quando parlano dell'evoluzione sociale, non vanno al di là di parole e declamazioni a cui non è connesso alcun fatto concreto.

Non sono in grado di risolvere alcun problema della collettività, e per loro la politica si esaurisce nei rapporti di potere tra le loro formazioni.

Poiché ciò dipende da ragioni strutturali che qui non esaminiamo, questo ceto politico deve essere combattuto nel suo insieme.

Lo capì a suo tempo, prima di altri, un geniale vignettista, Massimo Bucchi, quando, ai tempi di Prodi, fece una vignetta la cui didascalia diceva: «È la destra che traccia il solco, è la sinistra che lo difende».

L'esito più probabile di futuri governi non berlusconiani sarà, quindi, un caos sempre più accentuato e la deriva del paese, magari più lenta, verso la condizione di una specie di Somalia più sviluppata e meno insanguinata.

Sicuramente non è questo l'esito gradito ai poteri che si sono ora orientati a scalzare Berlusconi ed a favorirne la successione. Per tali poteri, però, l'unica opzione confacente ai propri interessi, e praticabile di fronte all’attuale crisi economica, è quella di salvare se stessi e abbandonare i ceti medi e bassi alla devastazione sociale.

Al di là delle loro intenzioni, quindi, essi produrranno tale esito.           

Su un periodo più lungo, questa opzione non potrà essere gestita all'interno delle forme istituzionali, anche soltanto esteriori, che hanno contrassegnato l'Italia del secondo dopoguerra. Lo sbocco finale di questa strada, se fosse percorsa per intero, sarebbe quindi uno stravolgimento autoritario che farebbe passare l'Italia da una specie di Somalia ad una specie di Cina, dove un potere forte verso i deboli e gerarchicamente coeso al suo interno, impone regole limitatrici degli scontri di potere ai vertici, e promotrici di uno sfruttamento feroce delle classi lavoratrici.

L'unica condizione perché questa via non sia percorsa fino in fondo, e magari neppure fino alla metà, o sperabilmente non sia neppure imboccata, è che questo ceto politico sia spazzato via nella sua interezza.

Ogni forma di contiguità anche verso i settori più di sinistra di esso, o verso un sindacalismo confederale come quello della CGIL, sarebbe politicamente esiziale per una forza antagonista, perché la dislocherebbe in circuiti ormai sterili e le farebbe contribuire alla confusione attualmente esistente nelle masse popolari.

Poiché non è pensabile che Alternativa, o qualcosa di simile ad essa, possa, a breve, non soltanto aspirare a gestire il paese, ma neanche essere la testa d'ariete del crollo di questo ceto politico (ormai questo ruolo se l'è conquistato sul campo, muovendosi in anticipo, il movimento di Grillo) l'unica azione realisticamente pensabile che consenta ad Alternativa di svolgere in un futuro non lontano il ruolo che non può svolgere nel presente, è quella di un'azione dal basso a fianco di determinate lotte sociali, cercando di dar loro più incisività e più consapevolezza.

Le lotte sociali a cui accompagnarsi, alle quali cercare di dare maturità politica, maturando assieme ad esse, non possono essere che quelle che specificamente sono di contrasto o di inciampo alle tendenze che stanno portando alla totale rovina il paese: le lotte, quindi, contro le opere che sfigurano e devastano il territorio, le lotte contro il rilascio delle immondizie nell'ambiente, le lotte contro l'inquinamento dei suoli, le lotte per la difesa dei diritti sociali, le lotte contro l’illegalismo del potere.

Occorre, infine, che sia chiaro che il passaggio dalle azioni di contrasto alle tendenze che ci stanno portando alla rovina totale, a una loro inversione in nuove linee di tendenza del paese, richiederà niente meno che un'economia ridefinita nella sua finalità e nella sua configurazione.

Si tratta di un compito gigantesco, che l'intero ceto politico attuale, in tutti i suoi settori, è incapace perfino di concepire, se non, qualche volta, a parole vuote, e che una formazione come Alternativa dovrebbe intanto cominciare ad esplorare teoricamente, per contribuire nell'immediato all'autocomprensione delle lotte sociali e per prepararsi in futuro a favorire soluzioni politiche che sottraggano l'Italia allo sfacelo.

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